giovedì 28 marzo 2013

Nell'ora dell'angoscia. L'«Orazione dell'orto» di El Greco (De Rycke)


L'«Orazione dell'orto» di El Greco
L'«Orazione dell'orto» di El Greco

Nell'ora dell'angoscia

di Jean-Pierre De Rycke

Grandi occhi allucinati, un volto allungato ed emaciato, quello di un'anima inquieta, così ci appare El Greco in un suo autoritratto in età avanzata. Ecco perché L'orazione dell'orto (1597-1607) doveva con ogni probabilità costituire un tema iconografico che più di qualunque altro si addiceva idealmente alla sua natura tormentata.
La “Suprema angoscia” è in effetti il titolo con il quale generalmente si designa l'episodio biblico che ricorda il breve ritiro del messia in un luogo isolato di Gerusalemme chiamato Getsèmani, dove si reca in compagnia di tre dei suoi discepoli -- Giovanni, Giacomo e Pietro -- poco prima della sua passione.
Il quadro del pittore cretese raffigura questo evento in un'atmosfera carica di misticismo e intrisa di una fantasmagoria alimentata dalla natura particolare dei suoi colori e delle sue forme plastiche.
La scena è allestita semplicemente con l'aiuto di alcuni volumi elementari che bastano a scandire lo spazio dal basso verso alto dell'immagine e nella profondità del suo dispositivo prospettico: prima una grande roccia a forma di pan di zucchero, che serve da sfondo alla figura di Cristo, protagonista dell'azione; poi la collinetta verdeggiante, sulla quale sta Gesù inginocchiato di fronte all'angelo intercessore che appare sulla sinistra in un alone soprannaturale, al di sopra del gruppo degli apostoli addormentati. La toponomastica del luogo rappresentato è suggerita dai rami di olivo che sfuggono dai tronchi scarni, attorcigliati e spezzati, sparsi qua e là nel dipinto.
Come nel racconto evangelico di Luca, al quale El Greco si è forse direttamente ispirato, Gesù -- che sta al centro dell'immagine ed è già anticipatamente rivestito della tunica rosseggiante del suo martirio -- è raffigurato in un gesto di supplica rivolto alla divinità, rappresentata qui dalla figura dell'angelo, la cui natura immateriale è sottolineata dal colore spettrale delle sue vesti, che si confonde con le nubi burrascose del cielo che l'ha inviato.
I movimenti disordinati delle braccia e l'espressione sperduta dello sguardo traducono lo smarrimento profondo del Figlio di Dio di fronte alla prova -- materializzata dal calice -- a cui il Padre lo destina per la salvezza degli uomini.
Dall'altro lato della collinetta dalla sommità tondeggiante, le tenebre invadono definitivamente il fondo della scena e la loro opacità crepuscolare, attraverso la quale un indefinito squarcio di luce apre un passaggio incerto, prefigura il tremendo destino che l'attende. In questo caos lugubre si percepisce ancora il profilo indistinto di una città -- appena abbozzata -- che sembra fluttuare nel bel mezzo del nulla, e, ai suoi piedi, un assembramento umano che dovrebbe rappresentare il gruppo d'individui venuti ad arrestare Cristo su indicazione del traditore Giuda.
Il loro aspetto fantomatico e minaccioso è accentuato dal bagliore delle torce che alcuni dei personaggi sollevano con il braccio teso, proiettando qua e là per terra lampi furtivi.
Lontano da questa agitazione e dal dramma in sospeso che si sta preparando a loro insaputa, Giovanni, Giacomo e Pietro, ai quali Gesù ha tuttavia raccomandato svariate volte di vegliare, dormono di un sonno profondo la cui realtà naturale è confermata dalla varietà delle pose proprie di questo stato dell'esistenza. Le straordinarie tonalità gialle e arancioni che caratterizzano le stoffe che avvolgono il corpo del discepolo prediletto di Gesù e del più anziano Pietro, a mo' di coperte, fanno eco alla tonalità a sua volta inusuale della veste del loro maestro situato -- sempre secondo il racconto di Luca -- a «un tiro di sasso» dal luogo dove essi riposano, più in basso.
Il loro singolare riverbero deriva, alla lontana, si sa, dal cromatismo manierista veneziano che Domenikos aveva avuto il tempo di assimilare nel corso del suo passaggio per le botteghe di Tiziano, del Tintoretto, e forse soprattutto del Veronese. Ma la denaturazione trascendentale dei colori è anche forse il frutto, sebbene ancora più alla lontana, dell'antico status particolare di pittore d'icone quale egli fu in gioventù; il soprannome di hagiographos a lui comunemente attribuito rimanda al carattere sacro del suo mestiere, completamente codificato dalle convenzioni plastiche (colori imposti e linee schematiche).
Questa libertà nuova di tonalità nella scelta delle tinte prolunga l'originalità del drappeggio le cui vibrazioni aeree -- soprattutto nel caso di Giovanni a sinistra dell'immagine -- assumono a volte un aspetto quasi futurista. Le elaborate torsioni delle loro pieghe ampiamente distese e traboccanti formulano ancora un vocabolario ereditato dal rinascente accademismo, ma il loro movimento soprannaturale e la loro ampiezza nuova nel campo spaziale stavolta prefigurano chiaramente l'inizio del temperamento barocco e della potenza d'effetto ricercata da quest'ultimo a detrimento della pura sofisticazione lineare.
Allo stesso modo il soffio cosmico e veemente che invade la rappresentazione striata d'accenti luminosi e contrastanti, che s'incrociano in tutte le direzioni dell'immagine, anticipa le vicine conquiste del Caravaggio, senza però la maestria naturalista e l'ordine sintetico.
La violenza e l'intensità dell'espressione sono comunque sempre compensate nel pittore ispano-greco da un ritegno grafico che l'artista s'impone proprio all'ultimo momento della sua realizzazione, e che si riconosce soprattutto dai bordi schiariti con i quali attenua spesso i contorni dei tessuti volteggianti sulle figure delle sue composizioni. Così funziona la sua arte infinitamente cupa, e forse è questo il motivo principale del suo fascino: un'intensa drammatizzazione parossistica dell'azione e del linguaggio plastico, allo stesso tempo costantemente addolcito dalla sublimazione delle forme e dei colori, essa stessa rivelatrice forse della trasfigurazione simbolica degli eventi della mistica cristiana che questi sono tenuti a tradurre nel dipinto.
Le visioni allucinate che l'artista sincero produce attraverso di essa sono con ogni probabilità anche il riflesso della sua anima perdutamente sensibile, tormentata dalla tragedia esistenziale.

(©L'Osservatore Romano 28 marzo 2013)

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