lunedì 11 marzo 2013

La «Verbum Domini» e l'allargamento della ragione secondo Benedetto XVI (Fernández)


La «Verbum Domini» e l'allargamento della ragione secondo Benedetto XVI

Novità dentro le cose solite

di Samuel Fernández*

Un semplice raffronto tra l'esortazione apostolica Verbum Domini, l'intervento di Papa Benedetto XVI nel Sinodo della Parola e la produzione teologica del professore e poi del cardinale Ratzinger permettono di constatare la sua costante preoccupazione di chiarire l'autentica maniera di vincolare l'esegesi biblica scientifica alla rivelazione storica. Dai suoi primi lavori, come Il Dio della fede e Il Dio dei filosofi, del 1960, ai suoi ultimi interventi, passando per discorsi programmatici come quello di Ratisbona, si riconosce una grande continuità nella sua opera intellettuale al servizio della Chiesa.
L'esegesi storico-critica si è dimostrata un eccellente metodo per interpretare i testi antichi; di fatto, nella programmatica introduzione al primo volume del libro Gesù di Nazaret, Papa Benedetto XVI afferma che tale metodo «resta indispensabile» (volume i, p. 12), perché il testo biblico, in sé, ha una storia. Ma questo metodo tanto necessario mostra i propri limiti quando lo si intende come autosufficiente, ossia come l'unico cammino e il cammino completo per la comprensione del testo biblico. La Scrittura richiede metodi filologici e storici seri per essere compresa, poiché «il Verbo si fece carne» (Giovanni, 1, 14), ma questi non ne esauriscono la lettura.
L'esortazione Verbum Domini contiene il discorso pronunciato durante il Sinodo della Parola dal Papa, che ha sottolineato la fecondità dell'esegesi storica e ha insistito sulla necessità di completare l'approccio storico con un approccio teologico. Sulla base della Dei Verbum (n. 12), ha ricordato gli elementi fondamentali della lettura teologica della Bibbia: si deve interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura; si deve tener conto della tradizione viva dell'intera Chiesa; è necessario osservare l'analogia della fede (Verbum Domini, n. 34). Questi principi, che definiscono una interpretazione come teologica, non si deducono dai testi, ma sono convinzioni anteriori alla lettura: sono presupposti di fede su cui poggia una lettura veramente teologica della Bibbia. Ma qualcuno potrebbe chiedersi: una lettura che parte da convinzioni di fede è meno scientifica?
A questa domanda cruciale si risponde in modo radicale nel constatare che non è possibile leggere senza convinzioni previe. Perciò, Benedetto XVI nella Verbum Domini avverte: «La mancanza di un'ermeneutica della fede nei confronti della Scrittura non si configura poi unicamente nei termini di un'assenza; al suo posto inevitabilmente subentra un'altra ermeneutica, un'ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo questa ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo e ridurre tutto all'elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini» (n. 35). Questo tipo di ermeneutica secolarizzata non è aperta alla novità: non ammette che la realtà sia diversa da ciò che è usuale, e allora la consuetudine si stabilisce come norma: laddove la Scrittura presenta qualcosa che va al di là della nostra esperienza quotidiana, lo si dovrà ridurre al livello della nostra esperienza quotidiana.
E così non sarebbe possibile un reale ingresso di Dio nella storia: «Così, infatti, si impone un'ermeneutica filosofica che nega la possibilità dell'ingresso e della presenza del Divino nella storia» (n. 36). Un'esegesi critica che presuppone dal punto di vista metodologico che la storia sia strettamente uniforme sente il bisogno di eliminare ciò che appare impossibile per queste leggi. Tale atteggiamento tende a definire impossibile ciò che va al di là della nostra esperienza attuale (cfr. Joseph Ratzinger, Situación actual de la fe y la teología, Messico 1998). Per accettare la rivelazione cristiana è allora necessario essere aperti a una vera novità nella storia, ossia è necessario ammettere che la realtà possa essere più vasta e più ricca di ciò a cui siamo abituati.
Ebbene, significa forse che per realizzare una lettura credente della Scrittura dobbiamo rinunciare alla ragione? O dobbiamo avvalerci della ragione solo finché ci può accompagnare, per poi abbandonarla quando ci imbattiamo nel mistero? Una lettura della Bibbia che rinuncia alla ragione degenera nel fondamentalismo ed è capace di sostenere ogni sorta di arbitrarietà, ingiustizia e violenza. L'irrazionale non è degno di fede. Una lettura che esclude la ragione non è umana e pertanto non è cristiana. La delicata corrispondenza tra il nostro lògos umano e il Lògos divino esige la partecipazione della ragione nella lettura credente della Sacra Scrittura. Poi ci chiediamo nuovamente: per leggere la Scrittura come credenti dobbiamo rinunciare alla ragione? Assolutamente no! Non bisogna più chiedersi se utilizzare o meno la ragione, ma quale ragione utilizzare. La questione fondamentale allora continua a essere il rapporto tra fede e ragione, precisamente tra i presupposti filosofici della lettura biblica e la rivelazione storica.
Una lettura biblica che pretende di essere filosoficamente neutrale, senza convinzioni previe, è illusoria, e su ciò le attuali filosofie del linguaggio sono concordi. Se non sono presenti le convinzioni della fede cristiana, ci saranno altre convinzioni. Detto in altre parole, i lettori sono sempre “credenti”, la differenza sta nel fatto che alcuni “credono” in una cosa e altri “credono” in un'altra. Non si deve pertanto considerare meno scientifica un'esegesi che parte dalle convinzioni della fede cristiana. Ma allora, qual è la razionalità più appropriata per l'esegesi teologica?
I presupposti non possono essere previ alla lettura, semplicemente perché, se così fosse, la rivelazione non potrebbe apportare nessuna reale novità alla nostra visione del mondo, e la sua lettura potrebbe solo confermare le convinzioni che il lettore aveva già precedentemente. Un'esegesi teologica esige un dialogo “di andata e ritorno” tra le convinzioni del lettore e il contenuto della lettura, ovvero tra la filosofia e la rivelazione. La rivelazione è letta dalla ragione e, a sua volta, la rivelazione illumina, purifica e amplia la ragione. In tal modo, non è più l'esperienza umana a innalzarsi come unico parametro dell'interpretazione biblica, ma è la Scrittura a diventare anch'essa parametro delle possibilità della nostra esperienza umana. La rivelazione storica deve avere un impatto sulle strutture del pensiero. La ragione ampliata dalla fede si apre per estendere i limiti delle proprie categorie di pensiero al fine di accogliere -- in modo intellettualmente responsabile -- ciò che si rivela nella Scrittura e che, a un primo approccio, sembrava essere in contrasto con la propria esperienza.
L'esegesi non deve avvalersi della filosofia solo finché questa l'accompagna, ma deve cercare un dialogo che “riformi” la stessa filosofia alla luce della rivelazione. È un'applicazione del fecondo invito di Benedetto XVI a «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa» (Ratisbona, 12 settembre 2006). Il credente, che vuole essere intellettualmente responsabile, guidato dalla convinzione dell'intellegibilità e dell'unità della realtà, e illuminato dalla rivelazione biblica, è chiamato a ripensare le proprie convinzioni filosofiche, per divenire capace di accogliere responsabilmente la nuova realtà che gli si è resa accessibile per mezzo della rivelazione. La fede cristiana, per mantenersi fedele alla sua identità, non può rinunciare alla filosofia, e non può neppure lasciarsi giudicare da una filosofia autonoma, chiusa alla novità.
La soluzione viene da un dialogo in cui il pensatore cristiano, illuminato dalla rivelazione, riforma la propria filosofia e, nello stesso tempo, esamina in modo critico la propria fede, alla luce della ragione. In questo dialogo, si purifica la fede e si purifica la ragione. Ovvero, questo dialogo permette di avvicinarsi a ciò che appartiene veramente alla fede e alle reali esigenze della ragione.
Tale programma di “ampliamento della ragione” sarà forse una delle grandi eredità della teologia di Papa Benedetto XVI.
Si tratta di un'eredità fondamentale, poiché solo una lettura biblica che si avvale di una ragione aperta alla novità del mistero di Dio è degna dell'uomo e, in definitiva, atta a far sì che, in modo autentico e responsabile, per mezzo della Scrittura, possiamo ascoltare Dio.

*Pontificia Università Cattolica del Cile

(©L'Osservatore Romano 18-19 febbraio 2013)

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