domenica 3 marzo 2013

La libertà allargata di Duns Scoto (e di Benedetto XVI)


Un tema filosofico

La libertà allargata di Duns Scoto (e di Benedetto XVI)

di Silvia Guidi

«Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi» ha detto Benedetto XVI nell'ultima udienza di mercoledì 27 febbraio. Forse non c'è frase più incomprensibile per la mentalità contemporanea, più radicalmente inattuale in un'epoca caratterizzata dall'ossessione del controllo, a tutti i livelli, nella vita pubblica come in quella privata, come la nostra. Far spazio nel proprio io a un criterio non identico a se stessi, obbedire a una misura che non coincide con la propria è un concetto che facilmente induce diffidenza, ironia e sopraccigli alzati nel clima di cinismo scettico diffuso in cui viviamo. La libertà è fatalmente dominata da un ultimo automatismo o può “allargarsi” a qualcos'altro? Può avere un senso, anche dal punto di vista filosofico, una domanda del genere? Sono interrogativi da secoli al centro della riflessione teologica occidentale, a cui ha tentato di dare risposta nelle sue opere anche il beato Giovanni Duns Scoto, il giovane e brillante professore francescano alla Sorbona di Parigi che fu costretto a scappare dalla città (siamo nella Francia dei primi anni del Trecento) perché non disposto a firmare la lettera di Filippo il Bello contro il Papa. «Benedetto XVI -- scriveva nel 2011 sul tema della “libertà allargata”, prima che divenisse così attuale come in questi giorni, Tobias Hoffmann -- nel suo discorso tenuto al Parlamento tedesco ha affermato che oggi domina “una concezione positivista della natura” (e quindi della persona umana)». Il positivismo di cui parla il Papa -- spiega Hoffmann in un intervento pubblicato sulla rivista «Antonianum», La teoria anti-naturalistica della libertà in Giovanni Duns Scoto (lXXXVII, 2012, pp.25-39) -- è una variante del naturalismo, teoria secondo la quale tutti i fenomeni spirituali si spiegano come manifestazioni della materia e tutta la realtà è sottomessa al “caso e alla necessità” del famoso libro di Jacques Monod. L'uomo non sarebbe altro che un accumulo di materiale altamente complesso. 
Secondo Benedetto XVI, una tale concezione della natura, «che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono», presenta un problema: «non può creare alcun ponte verso l'èthos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali». Nell'ambito di tale concezione positivista della natura, l'etica stessa diventa una chimera: la compassione che Francesco aveva per i poveri, l'amicizia che viveva con i suoi compagni e l'amore che aveva per Dio sarebbero interamente spiegabili facendo riferimento a leggi biologiche e fisiologiche.
«Ovviamente all'epoca di Duns Scoto -- continua Hoffmann, studioso che si è occupato spesso del pensiero del francescano scozzese -- nessuno avanzava teorie positiviste o naturaliste. Tuttavia, la questione circa l'origine dell'atto libero rappresentava un interrogativo fonte di vivaci discussioni: ad esempio, sulla misura in cui un atto libero come l'amore nasce dalla natura dell'uomo e in quale misura la trascende. Forse più dei suoi contemporanei Scoto aveva una netta percezione di ciò che distingue l'agire umano dai processi naturali». Che cosa dobbiamo attenderci -- si chiede Hoffmann -- da una teoria della libertà che proponga un'alternativa più ragionevole al naturalismo moderno? Dovrebbe dirci in che misura la libertà umana trascende le relazioni naturali tra causa ed effetto, dovrebbe spiegare la base psicologica di quella possibilità di trascendere la natura e dovrebbe sviluppare le sue implicazioni per l'etica. La teoria scotiana, secondo l'autore dell'articolo, risponde a queste esigenze, considerando la libertà come un fenomeno ben distinto dalla natura. I teologi cristiani hanno sempre sostenuto che l'uomo trova la sua perfezione nella beatitudine celeste, dove tutto il desiderio umano sarà appagato. «Se il fine ultimo dell'esistenza umana è questa suprema felicità -- continua lo studioso -- allora il desiderio della felicità ha certamente un “significato” morale. Credo che gli scolastici fossero tutti d'accordo su questo. Nonostante ciò, non per tutti il desiderio della felicità ha un valore morale. Per Tommaso, il desiderio della felicità non può mai essere reprensibile, giacché l'uomo per sua natura non può fare a meno di desiderare la felicità; sostiene addirittura che tutte le azioni umane sono motivate, in ultima analisi, dal desiderio della felicità. Tuttavia in tal modo diventa più difficile, per Tommaso, spiegare come si può amare in modo autenticamente gratuito, se tutto è motivato da un bene proprio. Duns Scoto, invece, ammette che è del tutto possibile agire per un motivo diverso dalla felicità; anzi, non solo è possibile, ma è anche moralmente doveroso».
Rimandiamo alla lettura dell'articolo per gli aspetti più tecnici di questa analisi. Semplificando -- e necessariamente banalizzando un'argomentazione che parte dalla famosa questione 15 del commento al nono libro della Metafisica di Aristotele per toccare il pensiero di Gualtiero di Bruges, Enrico di Gand, Goffredo di Fontaines -- si può dire che nella teoria scotiana la libertà e l'etica cominciano laddove la natura finisce, perché la dimensione morale della libertà, cioè la capacità di affermare un valore in quanto tale, ha come base psicologica una dualità di motivazioni ultime. Si può volere qualcosa o perché contribuisce alla propria felicità, o perché ha un valore in sé. Scoto in questo caso si avvale della terminologia delle due affectiones della volontà. Anselmo di Canterbury aveva ipotizzato un'affectio commodi (l'inclinazione della volontà al bene della propria persona) e un'affectio iusti (l'inclinazione della volontà verso ciò che è giusto, anche se va contro il proprio vantaggio). Scoto sviluppa ulteriormente questa teoria: la distinzione tra le due affectiones non solo esprime due possibili motivazioni della volontà, ma due dimensioni della volontà stessa. Grazie alla libera volontà, la persona umana non agisce in modo meccanico secondo ciò che massimamente soddisfa i suoi desideri: possiamo amare Dio non in quanto garantisce la nostra massima soddisfazione, ma possiamo innanzitutto volere che Dio stesso sia felice. La stessa autenticità di rapporto è possibile anche con altri uomini: affermo l'altro per il valore che è in sé e non per come può servire i miei interessi.

(©L'Osservatore Romano 3 marzo 2013)

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