giovedì 7 febbraio 2013

Un giovane al concilio. La testimonianza di un'esperienza straordinaria tra slanci intellettuali e azioni di rinnovamento (Marcocchi)

La testimonianza di un'esperienza straordinaria tra slanci intellettuali e azioni di rinnovamento

Un giovane al concilio


Questo ricordo del Vaticano II esce su «La Rivista del Clero Italiano» edita da Vita e Pensiero. L'autore ha insegnato storia del cristianesimo all'Università Cattolica del Sacro Cuore.


di Massimo Marcocchi


Ho vissuto la stagione del concilio Vaticano II già laureato e quindi ho seguito con consapevolezza lo svolgimento dell'assise conciliare, soprattutto attraverso i servizi dell'«Osservatore Romano» e le cronache di Raniero La Valle su «L'avvenire d'Italia», che leggevo avidamente.

Vissi un'esperienza straordinaria che fu tra le più belle della mia vita. Il cosmopolitismo dell'assemblea, la scoperta di realtà fino ad allora sconosciute, l'intreccio di molte culture e diverse teologie erano fatti di grandissimo rilievo. Il concilio fu la nostra passione, dico nostra perché coinvolse me e il gruppo degli amici di quel tempo che operavano a Cremona nell'Azione cattolica, e in particolare nei due movimenti dell'Azione Cattolica, la Fuci e i Laureati.
Ci colpì anzitutto l'universalità dell'assemblea composta da 2500 vescovi, appartenenti a tutti i Paesi del mondo. Ci colpì la presenza dei vescovi indigeni, africani e asiatici, ci colpì la maturità delle giovani Chiese extraeuropee. Ci piacque questa Chiesa iridescente, rivestita dei colori dell'arcobaleno, unita nella diversità. Rilevammo un dato riguardante gli ultimi due concili ecumenici. Nella seduta inaugurale del concilio di Trento, il 13 dicembre 1545, i vescovi erano 31, per la maggior parte italiani, nelle ultime congregazioni generali del 1563 i partecipanti al concilio oscillarono intorno ai 280 membri, tutti europei. Esisteva già una cristianità latino-americana con la sua gerarchia episcopale, che tuttavia non poté partecipare al concilio per il veto dell'imperatore Carlo v. Al concilio Vaticano i (1869-1870) parteciparono 774 vescovi, provenienti in larga misura dall'Europa e dall'America. Nel concilio Vaticano II si era realizzata la dimensione della cattolicità, cattolicità non solo geografica, ma culturale, che significa la capacità della Chiesa di inserirsi nelle culture e di vivificarle.
Ci affascinò poi l'idea che il concilio dovesse essere pastorale. I vescovi, riuniti in S. Pietro, nella luce del discorso di apertura di Giovanni XXIII, Gaudet mater Ecclesia, dell'11 ottobre 1962, alla condanna degli errori preferirono una esposizione positiva e convincente delle verità da accogliere e da testimoniare. Oggi da taluno si svaluta il concilio per il suo carattere pastorale, come se un concilio pastorale fosse un concilio minore, in nome di un'idea di concilio dogmatico che commina condanne. Taluno giunge ad affermare di non essere tenuto a osservarlo perché non dogmatico. In effetti il Vaticano II non ha comminato condanne. Non compare infatti in nessuno dei suoi documenti la classica espressione si quis dixerit..., anathema sit dei precedenti concili.
Le vicende del concilio non ci colsero impreparati, almeno sul piano delle letture perché avevamo accostato testi che ci avevano resi sensibili alle nuove temperie storiche. Anzitutto a Cremona si era svolto il ministero pastorale di don Primo Mazzolari, che aveva anticipato alcuni temi del concilio, e a Mazzolari eravamo legati fin dai tempi dell'esperienza fucina perché a Bozzolo si svolgevano periodici incontri di universitari. Ma soprattutto guardavamo alla Francia come grande polo di attrazione per molte ragioni: per la sua teologia, speculativa ma nel contempo storica (De Lubac e Congar), per la sua letteratura (Bernanos, Julien Green, Mauriac), per le sue novità pastorali (la missione di Francia, i preti operai e il cardinal Suhard, vescovo di Parigi, la gioventù operaia dell'abbé Cardin, belga ma molto legato alla Francia), per la sua spiritualità (Charles de Foucauld, Madeleine Delbrêl attiva nelle zone operaie di Parigi, comuniste, e Teresa di Lisieux) e per la sua filosofia politica (Maritain e Mounier).
Di De Lubac leggemmo due libri, Il dramma dell'umanesimo ateo, pubblicato in Francia nel 1944 e tradotto in italiano nel 1949 dalla Morcelliana, in cui il teologo francese considerava il materialismo pratico o il neopaganesimo come il grande fenomeno spirituale contemporaneo, e Meditazione sulla Chiesa, che negli stessi anni le Paoline avevano tradotto. Di Congar non leggemmo le opere maggiori, vale a dire gli Jalons pour une théologie du laicat e Vera e falsa riforma nella Chiesa, ma gli opuscoli agili e succosi sulla Chiesa che serve ed è povera, oppure le pagine sulla Chiesa retro et ante oculata che Congar, sulla scia di Bernardo di Chiaravalle, dichiarava essere provvista di due occhi, uno rivolto al passato, cioè alla sua Tradizione, l'altro proiettato sul futuro. E poi c'era il cardinal Suhard, che nella Quaresima del 1948 scrisse la lettera pastorale, tradotta in italiano dal servita Camillo de Piaz con il titolo Agonia della Chiesa?, un testo che dovremmo riprendere perché di straordinaria lucidità.
A proposito di Maritain, l'indimenticabile prof. Giuseppe Casella, schivo e riservato, nella sua casa di via Platina meditava san Tommaso e il suo originale interprete novecentesco Jacques Maritain e ci consigliava la lettura di Umanesimo integrale.
Mario Gnocchi, che soggiornò a Parigi tra il 1958 e il 1959, dopo avere conseguito la laurea in lettere come alunno del collegio Ghislieri di Pavia, ci informava sulle innovative esperienze liturgiche in atto nella parrocchia di Saint Sévérin.
La Germania non esercitò su di noi particolari suggestioni perché la teologia tedesca, e pensiamo a Karl Rahner, era fortemente speculativa e superava le nostre capacità di comprensione.
C'era però un autore, Romano Guardini, di cui leggevamo Lo spirito della liturgia, che la Morcelliana aveva tradotto negli anni Trenta. Lo spirito della liturgia era il frutto dell'azione educativa svolta da Guardini, dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, tra i giovani tedeschi del movimento del Quickborn (Fonte viva), in cui la liturgia occupava il posto centrale. Ma Guardini era nato a Verona ed era il più mediterraneo dei teologi tedeschi, quello che ha immesso nella teologia tedesca la fantasia delle origini italiane. E poi ci affascinava il fatto che insegnasse a Berlino negli anni Trenta una singolare disciplina, Katholische Weltanschauung (visione cattolica del mondo). Hitler lo sospese dall'insegnamento nel 1939 perché pensava che l'unica visione del mondo fosse la nazionalsocialista ed era infastidito che invece un professore intrattenesse gli studenti sulla Weltanschauung cattolica. Guardini esplorava la letteratura europea e compiva severi studi su Dostoevskij, Rilke, Hölderlin, e con un procedimento molto inclusivo coglieva in questi autori le anime di verità che poi immetteva nel grande circuito del pensiero cattolico. Affiancammo a Guardini Karl Adam e la sua Essenza del Cattolicesimo, che la Morcelliana aveva tradotto negli anni Trenta. Adam era professore di teologia dogmatica a Tubinga sulla stessa cattedra che era stata nell'Ottocento del grande Johann Adam Möhler.
Congar, De Lubac, Adam e Guardini hanno avuto il merito di porre l'accento sul carattere misterico-sacramentale della Chiesa e di avere aperto un varco nel compatto edificio dell'ecclesiologia post-tridentina o controriformistica, incentrata sugli aspetti giuridico-istituzionali della Chiesa e fortemente segnata dalla polemica antiprotestantica. In tal modo hanno preparato il concilio.
Quando il concilio si chiuse, l'attività del gruppo dei Laureati cattolici e dei Fucini fu volta a studiare il suo insegnamento. Parlammo molto, e facemmo parlare molto. Vennero a Cremona Giuseppe Lazzati, Ezio Franceschini, padre Balducci, don Germano Pattaro, don Alberto Bellini, Gabrio Lombardi, Carlo Felice Manara, padre Häring, don Pino Colombo e Sebastiano Bovo, abate di S. Giovanni Evangelista a Parma.
Negli anni successivi alla conclusione del concilio (a partire dal 1966) un gruppo cremonese di preti e di laici si riuniva periodicamente presso la parrocchia di San Giacomo del Campo per meditare sul concilio, avvertito come un evento ecclesiale di straordinario rilievo. La singolarità dell'iniziativa consistette proprio nell'avere raccolto all'ombra di un campanile preti e laici a riflettere insieme su comuni ideali in una sinergia profonda. Vibrava il desiderio di immettere nella Chiesa di Cremona le linfe nuove e il sangue vivo del concilio. Il concilio stimolava a sprovincializzare l'ambiente cremonese.
Sorgono ora le domande: che ne è del grande disegno che fu tracciato in quegli anni? Che ne è di quell'evento storico? Che ne è di quella passione che allora ci avvinse? Il concilio è ancora la stella polare oppure ha perso la sua spinta propulsiva? E in atto una politica restauratrice, che si sviluppa su vari fronti, nei confronti del concilio? Non sono domande retoriche. Sono domande che esigono risposte. Il mio augurio è che il gran vento del concilio torni a spirare impetuoso e gagliardo.

(©L'Osservatore Romano 7 febbraio 2013)

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