mercoledì 6 febbraio 2013

Il Codice di diritto canonico e il concilio Vaticano II (De Paolis)

Il Codice di diritto canonico e il concilio Vaticano II

Senso e significato di una novità


di Velasio De Paolis


Il Codex iuris canonici vigente è stato definito il Codice del concilio e l'ultimo documento del Vaticano II. La sua riforma infatti è stata annunciata proprio in concomitanza dell'indizione del concilio. Tale collegamento è andato sempre di più consolidandosi nel tempo, fino alla sua promulgazione avvenuta lo stesso giorno, il 25 gennaio, in cui era stato annunciato ventiquattro anni prima. Questo collegamento da una parte è stata la fortuna del nuovo codice, perché ha usufruito della buona fama e dell'accettazione dello stesso Vaticano II, dall'altra ha avuto le sue difficoltà, che ha dovuto affrontare la stessa recezione dello stesso concilio, per una corretta conoscenza, interpretazione e applicazione. Porta cioè con sé la storia stessa del Vaticano II.

La revisione del Codice era emersa già da tempo e si imponeva da sé. I motivi per tale revisione erano diffusi. Il codice del 1917 non era ritenuto più adeguato alla vita della Chiesa, benché il tempo di vita non fosse lungo: neppure cinquant'anni! Ma il codice del 1917 era ritenuto vecchio, perché era nato già vecchio, proprio perché il suo scopo non era stato tanto e primariamente quello di fare una profonda revisione dell'ordinamento della Chiesa, ma quello di rendere più facilmente accessibile e certo il diritto della Chiesa, liberandolo dalle incrostazioni plurisecolari che portava con sé. Il Codice in linea di principio riteneva la disciplina antica e pertanto secondo quella disciplina andava interpretato (cfr. can. 6).
Nel 1967 ricorreva il cinquantesimo anniversario del codice del 1917. Sembrava che dovesse passare inosservato. Ma Paolo VI ne volle la celebrazione. Per l'occasione ci fu anche un suo discorso: il Papa comincia da lontano, dal significato stesso del diritto nella realtà umana e quindi anche nella Chiesa, sottolineando la funzione positiva e necessaria del diritto, ed esprime la necessità che le leggi siano veramente al servizio della Chiesa e rispondenti alla sua vita.
Il tema del diritto ormai era entrato nelle preoccupazioni del Papa che non cessava di richiamare l'importanza e la necessità del diritto nella vita della Chiesa. Si andava diffondendo sempre di più una mentalità antigiuridica nella Chiesa proprio appellandosi al concilio e alla natura della Chiesa fino a negare la stessa necessità di un diritto della Chiesa. Si trattava di ripensare i principi alla luce del concilio, i quali avrebbero dovuto guidare la nuova codificazione, evitando particolarmente le errate visioni conciliari.
Il nuovo codice è stato lodato per la sua ricchezza dottrinale, per il suo afflato spirituale e per la sua pastoralità, che permette di leggere la norma nel suo significato di servizio alla salvezza delle anime. Il Codice si legittima e giustifica in relazione al concilio e alla fedeltà a esso, al punto che là dove tale fedeltà fosse in dubbio, il criterio interpretativo prevalente dovrebbe essere lo stesso concilio.
Questa visione del Codice, almeno nella parte finale di promulgazione e di presentazione di esso rispecchia il clima del tempo che faceva leva particolarmente sull'esaltazione del concilio e dello spirito conciliare. Attraverso questo clima favorevole al Vaticano II e alla sua ecclesiologia si intendeva anche far passare l'aspetto disciplinare, normativo e istituzionale della Chiesa e della vita della Chiesa, che pure il concilio non aveva certamente trascurato, ma che era stato messo piuttosto in ombra da una certa tendenza spiritualista e carismatica della vita della Chiesa. Di fatto, particolarmente nel dopo concilio si era rafforzata una certa tendenza che non lasciava spazio alla disciplina e al diritto. Di questo aspetto si era reso conto bene Paolo VI. La sua sottolineatura insistente sul fatto che il Codice nuovo era il Codice del concilio e l'ultimo documento del concilio significava che esso era stato fedele al Vaticano II e lo aveva interpretato correttamente; esso pertanto, venendo dopo tanti anni dal concilio, costituiva già una interpretazione del concilio stesso.
Se il Codice si misurava dalla sua fedeltà al concilio e alla sua retta traduzione e la massima era nella stessa citazione verbale del concilio, allora tanto valeva rifarsi direttamente al concilio, omettendo per quanto possibile lo stesso Codice: sarebbe stato più facile affermare la validità del documento. Di fatto si è introdotta nella prassi della Curia Romana di infarcire i testi, anche quelli disciplinari, di citazioni conciliari, e trascurare quasi completamente il codice. In tal modo non si faceva un buon servizio allo stesso codice. Di fatto i testi conciliari diventavano normativi attraverso il Codice; presentati direttamente essi di fatto conservavano piuttosto un'esortazione o direzione dottrinale che la dimensione normativa tipica di un codice o di un ordinamento giuridico.
Con l'esaltazione del Codice in riferimento alla sua dottrina, in realtà si correva il rischio di fare accettare il Codice non per il suo valore normativo in sé, ma per la dottrina, per la teologia che esso conteneva, snervando così la forza normativa tipica della stessa disciplina. La teologia corre il rischio pertanto di prendere il posto del diritto o di privare il diritto del suo significato proprio e della sua forza normativa e disciplinare.
Il pericolo poteva essere ancora più grave nel contesto della riflessione sullo stesso diritto della Chiesa, in relazione al diritto della società umana. Nella retta e ottima intenzione di sottolineare le peculiarità del diritto della Chiesa come popolo di Dio, con fini soprannaturali e mezzi soprannaturali, si è imboccata una strada che poi è risultata un vicolo cieco.
Se il diritto della Chiesa è un diritto speciale, analogo rispetto a quello civile, si corre il rischio di perdere la caratteristica propria del diritto, ossia quello della obbligatorietà in quanto ordine razionale per il bene comune della stessa comunità. Per di più si è finito per rompere il dialogo necessario tra diritto della comunità umana e diritto della Chiesa, proprio all'interno di quel dialogo che il concilio voleva ricomporre tra fede e ragione. Di fatto l'ordinamento canonico, nel clima di questa nebulosità dottrinale, ha avuto sempre meno cultori laici e sempre meno spazio nelle facoltà statali di giurisprudenza. Una rottura di dialogo che ancora oggi soffriamo, perché se si ignora il diritto della Chiesa si finisce per ignorare la Chiesa e di valutarla e giudicarla solo in base al diritto civile e da operatori del diritto che poco o nulla sanno della stessa Chiesa. Se nello studio del diritto la teologia finisce per prevalere, il rischio di perdere il senso proprio e specifico del diritto è in agguato. È invalsa l'idea che il diritto della Chiesa sia teologia, mentre l'altro diritto è filosofia. In realtà la base filosofica del diritto non esclude e non può escludere che vi sia uno spazio per la teologia, e viceversa la base teologica non può escludere che vi sia spazio anche per la filosofia.
Non è mancato chi ha fatto osservare che altro è la teologia e altro il diritto e precisato che il concilio è una riflessione teologica, mentre il diritto sulla base di questa riflessione e a partire da essa regola la vita pratica dei fedeli, nel sistema e nella pratica del diritto. E se la riflessione teologica della Chiesa è in continuità con la sua storia del passato, così anche l'applicazione del diritto non può prescindere dalla storia del suo passato e quindi della tradizione giuridica della Chiesa. Trascurare questo aspetto può portare a confusione e discussioni infinite.
Giovanni XXIII pensava a un concilio pastorale, che non intendeva definire dottrine nuove e tanto meno dogmi; ma, salva la dottrina della Chiesa, trovasse un modo di presentarla più vicino all'uomo di oggi e possibilmente anche nel suo linguaggio culturale, in modo da riannodare i fili del dialogo culturale tra fede e cultura. In questo tipo di impegno il raccordo con la tradizione è quanto mai indispensabile; analogamente si dovrebbe dire anche da parte del Codice, sia pure nel rinnovamento necessario. Il periodo che si è vissuto nella interpretazione di rottura con il passato ha portato a mettere in discussione tante certezze della tradizione, senza fondati motivi.
In conclusione, dalla storia che ci sta alle spalle dobbiamo trarre particolarmente una lezione di umiltà, che i medievali esprimevano con l'adagio: noi siamo quasi nani super gigantium humeris et longius quam ipsi speculamur. Siamo chiamati a coniugare bene l'essere e il cambiamento; l'identità con il rinnovamento; la permanenza con il progresso. Il progresso non è possibile senza la continuità. La rottura con il passato toglie le radici e non indica un cammino. È la minaccia del razionalismo che invece d'armonizzare ragione e fede, pretende di affidarsi solo alla ragione umana. Purtroppo il perdurante e incessante impegno che ha occupato i canonisti durante la lunga preparazione del nuovo Codice non ha permesso loro di curare adeguatamente anche la storia delle istituzioni della Chiesa e del diritto canonico. Se avessero avuto più tempo per indagare nella storia, avrebbero trovato certamente un tesoro prezioso che li avrebbe aiutati a proporre sintesi più accurate e meno parziali e unilaterali.
Ispirandosi alla retta dottrina conciliare, particolarmente da quella sulla Chiesa, il canonista vuole svolgere il suo compito al servizio della Chiesa, come discepolo che si mette in continuo ascolto del suo insegnamento, particolarmente di quello conciliare da essa stessa interpretato.

(©L'Osservatore Romano 6 febbraio 2013)

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