venerdì 18 gennaio 2013

Quant'è difficile essere bravi eredi. Dal rapporto col tomismo nella prima metà del Novecento all'attuale recezione del Concilio (Gilles Routhier)

Dal rapporto col tomismo nella prima metà del Novecento all'attuale recezione del concilio

Quant'è difficile essere bravi eredi


di Gilles Routhier


A prima vista, essere eredi ci pone in una situazione vantaggiosa, poiché riceviamo da coloro che ci hanno preceduti un lascito, cioè qualcosa che non abbiamo acquisito grazie al nostro lavoro. In altre parole, godiamo di un bene che non è frutto dei nostri sforzi. Tuttavia, se vi si guarda più da vicino, essere eredi non è così semplice. Si tratta di una situazione piena d'insidie e che comporta la sua parte di rischi. Nel mondo degli affari, nel mio Paese, una statistica stabilisce che più del cinquanta per cento delle aziende familiari non sopravvive quando esse vengono prese in mano dagli eredi e che la tappa del passaggio da una generazione a un'altra è una tappa delicata da negoziare. Del resto, già il Vangelo ci mette sull'avviso che essere eredi non è esente da rischi.

L'erede può scegliere tra molte possibili opzioni. Può dilapidare l'eredità, dissiparla senza ritegno e disperderla senza scrupoli, come si fa per le cose che consideriamo senza valore e alle quali non attribuiamo importanza. In questo caso, dopo un po' non resta più niente e l'eredità non avrà lasciato tracce durevoli e non avrà segnato l'erede con la sua impronta. Se ne sarà andata così come è venuta, senza che si sia stati realmente attenti a quel bene che ci è stato dato. Questo è un modo di non raccogliere un'eredità e di non vederne l'importanza. Non prendiamo sul serio né consideriamo come un tesoro o un bene prezioso quello che abbiamo ricevuto. Non vi prestiamo mai attenzione e non gli diamo valore, ignorando tutti i vantaggi che ne avremmo potuto trarre. Ce ne disfiamo addirittura, come se ci desse fastidio o ci procurasse imbarazzo. Per ignoranza o disattenzione, non abbiamo mai compreso il valore del bene che ci era stato dato in lascito.
Questo può essere il primo atteggiamento anche nei confronti del Vaticano II: il disinteresse e l'ignoranza di questo bene, per il fatto di non riuscire a vederne tutto il valore e ad accoglierne l'eredità nella nostra vita.
L'eredità ricevuta possiamo anche seppellirla, vale a dire conservarla intatta, custodirla così com'è, rifiutando di farla fruttare. In tal caso, non la mettiamo a contatto con nuove realtà e non la facciamo passare nella vita, per paura di danneggiarla o di perderla. La conserviamo, come in un museo, ma non la tocchiamo, ed essa non fa vivere. Possiamo sempre ritrovarla nel suo stato, immutata, senza che venga accresciuta, aumentata, trasformata o arricchita. Niente viene aggiunto all'eredità e niente viene modificato, così che essa finisce per essere pietrificata e fossilizzata. È tanto sacra che non osiamo toccarla. Così, non riesce a essere un'eredità viva e resta un patrimonio inerte.
Allo stesso modo, possiamo pietrificare il Vaticano II, chiudendolo nei testi, senza permettere lo sviluppo delle sue intuizioni, senza lasciare che il suo insegnamento si misuri con le nuove sfide del nostro tempo. Il Vaticano II resta nei libri, ma non nei cuori e nella vita.
Un'eredità può anche essere rifiutata. Perché è troppo pesante da portare, troppo impegnativa o troppo esigente, oppure perché l'erede vuole rompere con quanto gli viene offerto, preferendo pensare la sua esistenza libera e separata dal bene che ha ricevuto. La sua libertà si acquisisce al prezzo di volgere le spalle a ciò che gli è dato. Non ritenendo che il lascito possa arricchirci, renderci felici e permetterci di costruire la nostra vita, ce ne liberiamo. Allora l'eredità è vista come un super-io troppo pesante, opprimente, che ci impedisce di divenire noi stessi, che ci tira verso il passato da ripetere invece di aprirci verso il futuro. Questo può essere il terzo atteggiamento nei confronti del Vaticano II. Possiamo volgergli le spalle, preferendo costruire la nostra vita cristiana e la vita della Chiesa separandoci dall'eredità che respingiamo. Con un gesto integralista, pensiamo che l'oblio sia preferibile alla ricchezza dell'eredità.
Aggiungo un quarto caso possibile: la discussione intorno all'eredità o la disputa tra gli eredi, soprattutto sul senso da dare a ciò che ci viene trasmesso e sul modo di valorizzarlo. Questo è un altro modo d'impedire all'eredità di prosperare, poiché l'eredità sarà smembrata, fatta a pezzi e gli eredi litigiosi presto avranno solo delle briciole da dividersi, non più un'eredità comune. E si litiga sul valore e la portata dell'eredità. Allo stesso modo, ci potremmo impegnare fino alla nausea in un dibattito sterile e infinito sull'ermeneutica del concilio, il che naturalmente ci distrarrebbe dal riprendere la lettura di quell'insegnamento perché esso diventi vita. In tal caso ci si distrae dall'essenziale, ma bisogna essere consapevoli che si tratta, in un certo senso, di una misura dilatoria.
Infine, possiamo ricevere un'eredità e farla fruttare, di modo che i cinque talenti ricevuti presto ne produrranno altri cinque, e così via. È l'atteggiamento del servitore buono e fedele, capace di valorizzare l'eredità ricevuta. Ritroviamo anch'esso nella Chiesa.
Rifletterò per un istante a partire da un'analogia: il rapporto con il tomismo che rappresentava, nella prima metà del XX secolo, lo zoccolo su cui poteva edificarsi la teologia e il quadro di pensiero all'interno del quale il cattolicesimo pensava se stesso.
Anzitutto, bisognava mettersi d'accordo su quel che si intendeva con “tomismo” prima di proporre di far proprio quel pensiero e di raccoglierne l'eredità. Per alcuni, l'eredità tomista si riassumeva nelle ventiquattro tesi elaborate da Mattiussi e pubblicate inizialmente dalla Congregazione degli studi nel giugno 1914. La riduzione del tomismo alle ventiquattro tesi, destinate a guidare la formazione dei chierici, venne ratificata dalla Congregazione dei Seminari e delle Università il 7 marzo 1916, quando essa dichiarò che «le ventiquattro tesi contengono la vera dottrina di san Tommaso» e che «sono tutte proposte come direttive sicure».
Quello era un modo molto particolare -- forse comodo per gli studenti -- di raccogliere l'eredità di Tommaso d'Aquino, un modo che, benché ripreso ancora nel 1946 da Garrigou-Lagrange, non è stato recepito rigidamente, neppure nel Codice di diritto canonico del 1917 (c. 1366 § 2) che, proponendo il tomismo come riferimento, rimandava piuttosto al metodo, ai principi e alla dottrina del Dottore Angelico, cosa già molto più ampia del catechismo tomista delle ventiquattro tesi.
Lo capiamo, considerare l'eredità di Tommaso attraverso il prisma delle ventiquattro tesi e facendo della sua teologia una «metafisica sacra», secondo l'espressione di Chenu, era un modo davvero particolare di essere eredi. Per lui, il catechismo tomista contenuto in una «lista di tesi aveva l'effetto di estrarre da san Tommaso un apparato filosofico, tralasciando il fondo stesso del suo pensiero e della sua teologia. Quella lista non faceva alcuna allusione al messaggio evangelico. Faceva uscire la dottrina di san Tommaso dalla storia, la detemporalizzava».
Ci sono altri modi concorrenti di considerare Tommaso e di esserne gli eredi. Ne troviamo diversi esempi, tra cui la posizione adottata da Étienne Gilson, ampiamente condivisa dai maestri del convento domenicano di Saulchoir. Per Yves Congar, «esiste un san Tommaso fissato in un insieme di tesi materialmente considerate». Per altro, egli aggiunge: «Da una quarantina d'anni lo studio storico di san Tommaso ci ha fatto capire meglio, al di là delle tesi di scuola ormai superate, la potentissima originalità di san Tommaso (...). Lavori simili ci restituiscono la reazione originale di san Tommaso, le sue idee veramente creative, più profonde e più aperte, più accettabili dal punto di vista moderno, di quanto non ci facesse sospettare il tomismo dei commentatori classici e dei manuali. È questo il san Tommaso che dobbiamo frequentare e alla cui scuola dobbiamo metterci».
Molti anni prima, il suo confratello e amico, Marie-Dominique Chenu, ci metteva in guardia anch'egli contro un certo modo di essere fedeli a san Tommaso. Per il rettore di Saulchoir, il tomismo o la philosophia perennis non doveva essere considerato «come un sistema definito di proposizioni inviolabili, ma come un corpo d'intuizioni basilari, che s'incarnano in insiemi concettuali solo a condizione di tenervi viva la loro luce e di sottometterle a un perpetuo confronto con la realtà sempre più ricca».

(©L'Osservatore Romano 18 gennaio 2013)

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