giovedì 31 gennaio 2013

Poesia e verità del documento più bello e impegnativo del Vaticano II. Per una rilettura della «Dei Verbum» (Fisichella)

Per una rilettura della «Dei Verbum»

Piacque a Dio di rivelare se stesso

Poesia e verità del documento più bello e impegnativo del Vaticano II

di Rino Fisichella

Riflettere sulla Dei Verbum equivale di fatto a ripercorrere l'intera storia del concilio Vaticano II. 
La costituzione dogmatica fu oggetto del dibattito dei padri conciliari fin dai primi mesi del concilio, ne accompagnò i lavori per i tre anni successivi, e fu approvata pressoché all'unanimità a conclusione dell'assise il 18 novembre 1965. Certamente, non ho timore di affermare che siamo dinanzi al documento più bello e più impegnativo del concilio. Più bello, perché ha saputo coniugare la verità dogmatica, con il suo linguaggio preciso e spesso poco incline a lasciarsi tradurre nella plasticità delle immagini con espressioni di alta poesia. Più impegnativo, perché diversi dei suoi contenuti giungono, dopo secoli di dibattito teologico, a una loro chiara elaborazione che evidenzia il progresso dogmatico compiuto.
La rivelazione, che costituisce il fondamento e il cuore della fede cristiana, veniva finalmente a ritrovare il suo posto centrale nella vita della Chiesa. Le prime parole con cui si apre il documento, citando il testo della prima lettera di Giovanni, fanno percepire da subito che si tratta di un'esperienza costitutiva e viva. L'esigenza cioè di comunicare l'incontro reale con Gesù Cristo il Figlio di Dio che chiama alla comunione di vita con la Trinità, cuore e fondamento della fede. Dei Verbum dice immediatamente la straordinaria novità che si viene a compiere nella storia degli uomini. «Parola di Dio» non si intende qui come un generico parlare del Padre, ma attesta l'evento definitivo del suo intervento nella storia: il mistero dell'incarnazione del Figlio. Lui è la Parola che da sempre viene pronunciata e che ora diventa anche visibile. È importante, comunque, cogliere nella lingua originale la peculiarità che viene espressa: Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans. Il primato spetta alla Parola di Dio con la quale l'incipit del testo si apre. Proprio per questo, nello stesso tempo, vengono poste anche le condizioni con cui la Chiesa deve porsi dinanzi a questo evento: l'ascolto e la proclamazione.
Come verrà ribadito nel secondo capitolo della costituzione, il Magistero della Chiesa «non è superiore alla Parola di Dio, ma a essa serve», piuttosto «piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone» (n. 10). Se da una parte dinanzi alla Parola si impone l'ascolto, dall'altra ne deriva la sua proclamazione. La Chiesa non si stanca di annunciare a tutti e in ogni luogo la parola di salvezza che ha il volto di Gesù di Nazaret. Anzi, lo fa con “fiducia” volendo esprimere la stessa forza degli apostoli che con franchezza, cioè con parresìa (Atti degli apostoli, 4, 13. 31), attraversa le strade del mondo per portare la Parola che salva.
Quanto sia decisivo l'insistenza sulla Parola che permane viva e non può essere limitata allo scritto, lo attesta ripetutamente il nostro documento con alcune particolarità che meritano di essere sottolineate. Dei Verbum, inserendosi nella tradizione patristica e medievale, recupera con la Parola di Dio l'unicità della fonte della rivelazione, che viene trasmessa mediante la Sacra Scrittura e la Tradizione. Il concilio parla spesso della Sacra Scrittura come Parola di Dio. La stessa terminologia, comunque, viene utilizzata anche per la Tradizione. «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono dunque strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano in un certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; invece la sacra Tradizione trasmette integralmente la Parola di Dio (Dei Verbum), affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza» (n. 9; cfr. n. 10).
Come si nota, la “Parola di Dio” non può essere identificata solo con la Sacra Scrittura. Se ciò avvenisse, sarebbe un impoverimento dell'evento della rivelazione e avrebbe delle conseguenze nocive anche nella pastorale. Ciò che emerge dal testo conciliare, invece, è il richiamo a una Parola che permane sempre viva. Quando parla della Sacra Scrittura dice che è locutio; cioè qualcosa che viene detto non che viene scritto; quando parla della Tradizione e quindi della trasmissione del Vangelo dice: verbum. Nell'uno come nell'altro caso ci si ritrova sempre con una terminologia che indica una realtà viva, in movimento dinamico tipico della parola. Ciò non toglie il carattere normativo della Scrittura che da sempre, insieme alla Tradizione, è considerata dalla Chiesa «la regola suprema della propria fede» (Dei Verbum, 21). Il cristianesimo, in forza di questo, non potrà mai essere identificato come la “religione del libro”. La Parola possiede un primato tale che non ne permette equivoco alcuno.
Dire “Parola di Dio”, equivale pure ad affermare che Dio ha parlato; è uscito dal silenzio in cui l'uomo lo aveva rinchiuso e nel suo amore si rivolge di nuovo all'umanità. Il fatto che Dio parla implica che vuole comunicare qualcosa di intimo e di assolutamente necessario per l'uomo senza del quale non potrebbe mai giungere a una piena conoscenza di sé e del mistero stesso di Dio. Riprendendo un testo della Lettera agli Ebrei, la costituzione conciliare sottolinea che Dio «ha parlato». Il tempo al perfetto e non è casuale. Nel greco biblico far ricorso al perfetto indica che l'azione è nel passato, ma gli effetti sono ancora presenti fino ai nostri giorni. Insomma, il fatto che Dio abbia parlato non è per noi un evento chiuso nel passato della storia, ma è un'azione che permane. Dio continua a parlare alla sua Chiesa per aprirle i tesori nascosti della Rivelazione e immetterla in quel senso sempre più profondo della verità racchiusa nella sua Parola.
Il nostro testo afferma ancora: placuit Deo in bonitate et sapientia sua revelare se ipsum. «Rivelare se stesso» dice molto di più che far «conoscere se stesso». Viene detto, infatti, in cosa consiste il tipo di conoscenza, è una rivelazione. Ciò indica che qualcosa di radicalmente nuovo è offerto all'umanità, che da se stessa non avrebbe mai potuto raggiungere né produrre.
La Dei Verbum presenta la rivelazione come gratuita iniziativa di Dio che entra in rapporto di comunione con l'uomo. È tutta la vita di Dio che viene rivelata nella persona storica del Cristo; la Trinità si esprime nelle parole e nei gesti, intimamente uniti, di Gesù di Nazaret. All'uomo resta l'obbedienza della fede, che è abbandono totale al mistero di Dio che si rivela. La storia è lo scenario e il palcoscenico in cui si realizza questo ineffabile incontro di Dio e dell'uomo ed è il luogo in cui questo incontro viene tramandato nei secoli e fatto conoscere.
Il testo, comunque, procede oltre per indicare la modalità con la quale Dio si rivela e comunica: «Nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro». Quanto possa essere decisivo il verbo intrattenersi lo attesta il suo riferimento alla teologia di Giovanni dove il verbo “rimanere” ha un valore paradigmatico. Dio quindi non solo parla con gli uomini, ma si ferma con loro; rimane con loro per condividere gioie e dolori e dare alla vita il suo senso compiuto che non potrebbe essere ritrovato altrove. In questo orizzonte, si deve cogliere il rimando alla pienezza della rivelazione nella persona di Gesù Cristo. Lui è il rivelatore del Padre e nello stesso tempo la sua rivelazione. Questa non arriva solo tramite la sua predicazione, a cui spesso cede la tentazione di molti, ma anche nei suoi gesti e con il suo silenzio. Gestis verbisque attesta l'unità della persona di Gesù e vuole evidenziare quanta attenzione sia dovuta nel cogliere il fatto rivelativo anche nei segni che vengono offerti da Gesù Cristo.
Insomma, il concilio attesta che la sola predicazione non basta se questa non è accompagnata dai segni che ne attestano la piena efficacia.
Il valore di Dei Verbum per il presente della Chiesa è l'ultima considerazione a cui si vuole giungere. Dopo cinquant'anni dall'apertura del Vaticano II è possibile verificare anzitutto il grande apporto che da questo insegnamento è stato profuso dalla Chiesa. Per quanto possa valere il mio pensiero, ritengo che molti passi siano stati compiuti; eppure, il cammino per far emergere in pienezza l'originalità e la ricchezza di questo insegnamento è ancora lungo. Certamente, dopo secoli di ombra, la Bibbia è stata riportata tra le mani dei fedeli e ha ritrovato il suo posto privilegiato nella Chiesa e nella vita dei singoli credenti. Alla stessa stregua, nel corso di questi decenni, gli studi di esegesi si sono moltiplicati e consentono di giungere a una conoscenza più coerente dei testi sacri. Non sono mancate, purtroppo, stonature eclatanti che hanno spinto la Sacra Scrittura fuori dal contesto ecclesiale con il grave pericolo di incatenarla alla sola interpretazione, figlia di metodi spesso estranei. Proprio su questo orizzonte, è possibile vedere quanto ancora lungo e fecondo debba essere il cammino per il futuro. Penso, in primo luogo, alla comprensione del concetto di “Parola viva” che deve essere “trasmessa”.
È proprio il concetto e l'azione della trasmissione della Parola di Dio che sembra oggi mancare. Ciò con cui ci si viene a incontrare, purtroppo, è l'interruzione della trasmissione della fede.
L'analfabetismo religioso rende questa trasmissione ancora più difficile. Per poter far conoscere alle generazioni che verranno dopo di noi tutto ciò che «la Chiesa è e tutto ciò che essa crede» (Dei Verbum, 8) è necessario che vi sia la consapevolezza di essere parte viva della Chiesa. Il senso di appartenenza alla Chiesa impone di crescere in questa responsabilità e diventare artefici di una nuova evangelizzazione che sappia portare, anzitutto ai credenti, l'immutata freschezza della Parola di Dio.


(©L'Osservatore Romano 31 gennaio 2013)

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