mercoledì 30 gennaio 2013

Perché il Codex iuris canonici è il più autorevole testo di ecclesiologia (Coccopalmerio)

Perché il Codex iuris canonici è il più autorevole testo di ecclesiologia

Davanti allo specchio del concilio


di Francesco Coccopalmerio


A un amico giornalista, che mi chiedeva di dargli una definizione, possibilmente rapida ed efficace, del Codice di diritto canonico, mi è venuta, quasi spontanea, questa risposta: «Il Codice: un testo di ecclesiologia, specchio del Vaticano II». Il mio interlocutore mi ha guardato un po' stranito, ma anche interessato, o compiaciuto, e mi ha chiesto spiegazioni.

Il Codex iuris canonici è un testo di ecclesiologia per il semplice motivo che, in tutte le sue parti, parla della Chiesa e solo della Chiesa. Basta, per convincersi, leggere i titoli dei vari libri: «ii. Il popolo di Dio»; «III. Il ministero di insegnare della Chiesa»; «iv. Il ministero di santificare della Chiesa»; «v. I beni temporali della Chiesa»; «vi. Le sanzioni nella Chiesa»; «VII. I processi» (evidentemente nella Chiesa). Il primo libro, «Le norme generali», è una parte tecnica, che serve per capire le altre.
Resta, dunque, verificata la prima parte della definizione: il Codice di diritto canonico è un testo di ecclesiologia. E -- nessun dubbio -- è il testo di ecclesiologia che gode di maggiore autorevolezza.
Risulta ovvio che il Codice è un testo di ecclesiologia, diciamo a statuto speciale. E, in effetti, relativamente alla struttura, si esprime in canoni, cioè in formule concise e, relativamente al contenuto, tratta questioni ecclesiologiche secondo una propria ottica, concentrando la sua attenzione sui molteplici soggetti nella Chiesa e descrivendo le loro attribuzioni, cioè i doveri, i diritti e le abilitazioni, in una parola le realtà giuridiche. Per fare gli esempi più disparati, si va dal diritto dei fedeli di fondare loro associazioni (can. 215), alla definizione di diocesi (can. 369), ai doveri del parroco (can. 528-530).
A questo punto, appare comprensibile che qualcuno chieda: Come può un Codice essere un testo di ecclesiologia, quindi un testo teologico? Un testo teologico, infatti, contiene asserzioni di fede o, comunque, di dottrina. Un Codice non è, forse, solo un insieme di canoni, cioè un insieme di leggi?
La risposta non è agevole ed esige certamente, da parte mia, uno speciale impegno di chiarezza, ma richiede anche, da parte forse di alcuni lettori, una maggiore disponibilità intellettuale nel senso di abbandono di pregiudizi che potrebbero ostacolare la comprensione.
Dobbiamo premettere un dato che condiziona tutto il discorso. Nella Chiesa esistono realtà giuridiche, doveri, diritti, abilitazioni, che sono state istituite, e che quindi esistono, per volontà di Cristo stesso, fondatore della Chiesa. Possiamo chiamarle “ontologiche”.
Esistono, poi, realtà giuridiche costituite ed esistenti non per volontà di Cristo fondatore bensì per volontà del legislatore ecclesiale. Possiamo chiamarle “positive”.
Qualcuno, giustamente, si aspetta degli esempi. Ne diamo due. Il primo, chiaro e importante, di realtà giuridica ontologica è il dovere e il diritto di tutti i fedeli cristiani di offrire ai loro Pastori consigli per il bene della Chiesa. È evidente che tale attribuzione viene ai fedeli dal sacramento del battesimo e quindi esiste per volontà di Cristo. Un esempio, invece, peraltro noto, di realtà giuridica positiva è la struttura del Consiglio pastorale parrocchiale con i doveri e i diritti che competono a coloro che ne fanno parte. È evidente che tutto ciò risale non alla volontà di Cristo, ma solo a quella del legislatore ecclesiale.
La prima realtà giuridica, quella ontologica, è contenuta nel can. 212, § 3 e la seconda, quella positiva, è statuita nel can. 536. Questi due testi sono due esempi di canoni con contenuto differente: il primo ha contenuto ontologico, il secondo ha contenuto positivo. Anche gli altri canoni sono opportunamente distinguibili, pur senza rigidità, in canoni ontologici o positivi e pertanto sono catalogabili in una duplice tipologia. Questo dato fondamentale ci introduce nel seguito della riflessione.
Si tratta di considerare l'autore del Codice e la natura dell'attività da lui svolta. Quando, infatti, l'autore del Codice formula i singoli canoni compie un'operazione complessa che ha una duplice tipologia. Quando formula i canoni positivi, compie un atto di volontà, con cui costituisce, cioè fa esistere, le realtà giuridiche contenute nei canoni. Possiamo dire che la formulazione dei canoni con contenuto positivo è propriamente un atto di legislazione. Quando formula i canoni ontologici, compie un atto non di volontà, non di costituzione, bensì di conoscenza di una realtà giuridica già esistente e insieme di dichiarazione della realtà stessa. Possiamo dire che la formulazione dei canoni con contenuto ontologico è propriamente un atto di magistero.
Quanto detto sopra relativamente al contenuto dei canoni e alla duplice tipologia che ne deriva, possiamo dire ora relativamente alla natura dei canoni: i canoni con contenuto positivo sono canoni legislativi e i canoni con contenuto ontologico sono canoni magisteriali.
Se, ora, riuniamo e rileggiamo tutti i canoni magisteriali, possiamo rispondere, in modo -- credo -- soddisfacente, alla domanda sopra formulata: come può un Codice essere un testo teologico, contenere asserzioni di fede o, comunque, di dottrina? Sì, il Codice contiene asserzioni di fede e di dottrina precisamente nell'insieme dei canoni magisteriali.
Come tale, il Codice appare specchio del concilio in quanto riprende fedelmente la dottrina del Vaticano II. Basta rileggere i cann. 204ss sui christifideles o i cann. 330ss sui rapporti tra episcopato e primato per rendersi facilmente conto di quanto abbiamo affermato. Una prova semplicissima e addirittura letterale: si provi a confrontare il can. 212, § 2 con Lumen gentium, 37, 1. Quindi il Codice rispecchia l'ecclesiologia del Vaticano II o ne è un compendio. Ma possiamo dire qualcosa di più. E cioè che l'immagine del concilio rispecchiata con fedeltà nei canoni viene dal Codice ulteriormente abbellita. In che senso? Per il semplice motivo che il Codice alla realtà giuridica ontologica, rispecchiata dal Vaticano II, aggiunge una realtà giuridica positiva, costituita dal legislatore ecclesiale. In altre parole e ritornando agli esempi sopra utilizzati: il dovere-diritto dei fedeli di offrire consigli ai Pastori (realtà giuridica ontologica di cui al can. 212, § 3) viene corredato dalla statuizione del Consiglio pastorale parrocchiale (realtà giuridica positiva del can. 536) e con ciò resa più efficace nella sua attuazione concreta e resa quindi immagine più viva.
In altre parole, l'attribuzione dei fedeli di consigliare i Pastori sarebbe meno completa senza l'ulteriore statuizione del Consiglio pastorale parrocchiale, mentre con questa struttura viene ulteriormente avvalorata. In questo senso parliamo di immagine ulteriormente abbellita.
Questo è, in breve, il Codex iuris canonici. E ci permettiamo di aggiungere che questo testo di ecclesiologia specchio del Vaticano II, opera di complessa struttura nonché di delicato mantenimento, è in qualche modo affidato alle cure particolari del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, che ne deve promuovere, insieme con la conoscenza e la fedele osservanza, anche -- qualora necessario -- l'opportuno aggiornamento suggerendo al Papa, che è il Supremo Legislatore, eventuali integrazioni o modifiche.
Ci auguriamo che la celebrazione del trentesimo anniversario della promulgazione del Codex iuris canonici sia un'efficace occasione per la riscoperta intelligente e cordiale di questa opera fondamentale e del suo -- usiamo l'espressione di Giovanni Paolo II nella costituzione apostolica di promulgazione Sacrae disciplinae leges -- «carattere di complementarità in relazione all'insegnamento del concilio Vaticano II».

(©L'Osservatore Romano 30 gennaio 2013)

1 commento:

SERAPHICUS ha detto...

Questo contributo è semplicemente ridicolo. In ogni sua parola. E se penso all'incarico che l'autore copre - non so se ridere o piangere.