venerdì 30 novembre 2012

Storia della nascita di una parola. La genesi del termine che indica la Chiesa apostolica romana (Nathan Söderblom)

La genesi del termine che indica la Chiesa apostolica romana

Storia della nascita di una parola


Cattolici, cattolicesimo e universalità della fede da Ignazio di Antiochia al pensiero del teologo svedese Nathan Söderblom


Pubblichiamo stralci di una conferenza tenuta a Roma presso la sub commenda dell'Ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, dal presidente della Camera teologica della Chiesa evangelica in Germania, uno dei più noti teologi protestanti tedeschi. Christoph Markschies è nato a Berlino nel 1962; pastore luterano, è stato dal 2006 al 2010 rettore della Humboldt Universität di Berlino, dove dal 2004 insegna Storia della Chiesa antica sulla cattedra che fu di Adolf von Harnack.


di Christoph Markschies


Vorrei approfondire, in qualità di storico della Chiesa, i termini “cattolico” ed “evangelico” e il significato di ciò che definiscono presso i teologi della Riforma del XVI secolo e i primissimi teologi cristiani dell'antichità. Inizio dal termine “cattolico”: la parola latina catholicus deriva dalla parola greca katholikòs (composta da katà “per” e òlon “tutto”) e significa “riguardante il tutto”, “universale”. Nel Nuovo Testamento viene utilizzato una sola volta l'avverbio kathòlou nel senso di “interamente” o “assolutamente” (Atti, 4, 18); con questo significato la parola appare anche nella traduzione greca dell'Antico Testamento, la Septuaginta. All'inizio del movimento di Gesù, però, l'espressione non viene riferita alla generalità e all'universalità della Chiesa, sebbene tale concetto esista praticamente sin dall'inizio. Già nella prima generazione dopo la morte di Gesù, della Chiesa fanno parte persone appartenenti non solo alle più svariate nazioni -- come illustra l'evento della Pentecoste -- ma anche agli strati sociali più diversi (come indica la prima Lettera ai Corinzi), e soprattutto i cosiddetti giudei cristiani e i pagani convertiti al cristianesimo, come documenta il cosiddetto decreto degli Apostoli.

Si può quindi affermare che già ai primordi del cristianesimo la cattolicità della Chiesa viene attribuita, se non linguisticamente almeno concretamente, alla ekklesìa già nel primissimo cristianesimo, e più precisamente sia alla Chiesa locale sia alla compagine sovraregionale.
Molto presto nella letteratura cristiana antica la parola katholikòs appare per la prima volta con un significato per noi eloquente, e più precisamente viene usata dal vescovo Ignazio d'Antiochia all'inizio del secondo secolo. Questi scrive alla comunità di Smirne (l'attuale Izmir), in Asia minore: «come là dove c'è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica» (Lettera agli smirnesi, 8, 2).
Garante del fatto che la Chiesa sia “cattolica”, ovvero “universale” e non particolare, distante dalla verità universale deve essere, secondo Ignazio, il vescovo. Ignazio è un vescovo della Chiesa antiochena, coinvolto in conflitti profondi con alcuni gruppi cristiani all'interno della sua vivace comunità metropolitana, ed è quindi comprensibile la sua arringa a favore di una Chiesa costituita in tal senso in modo episcopale. Pertanto, la frase appena citata nel suo contesto più ampio dice: «Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c'è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica» (Lettera agli smirnesi, 8, 2).
Il parallelismo delle due proposizioni indica che l'universalità è stata donata alla Chiesa da Cristo e che da lui deriva. La Chiesa, qui, viene già pensata più come una realtà celeste, o perlomeno come una realtà terrena fondata in cielo, che si concretizza nella comunità terrena con il suo vescovo quali immagini di questa Chiesa celeste. Da un lato ciò è segno del platonismo vulgato sostenuto da molti pensatori all'inizio dell'epoca imperiale, secondo il quale per ogni realtà terrena esiste una figura ideale celeste o trascendente, dall'altro corrisponde naturalmente anche all'idea fondata sul concetto ebraico-ellenistico di un mondo celeste.
Certo, con questa sua idea di una Chiesa universale, di una Chiesa che trascende la sua universalità terrena, che esiste al di là dello spazio e del tempo -- come anche in molti altri luoghi -- Ignazio d'Antiochia è assolutamente solo all'inizio del secondo secolo; infatti, soltanto molto, molto tempo dopo vescovi e teologi saranno disposti a seguirlo concettualmente (ragion per cui viene costantemente messa in discussione l'autenticità delle sue lettere e ragion per cui queste vengono datate in epoca molto più tarda).
Di fatto, all'inizio la parola katholikòs viene utilizzata in senso molto lato come espressione aspecifica per il termine tedesco “universale”: il maestro romano Giustino, martire ucciso intorno alla metà del secondo secolo, nel suo Dialogo con l'ebreo Trifone dice che «per tutti, senza eccezione, ci sarà la risurrezione universale [= cattolica] e cosiddetta eterna». E ben cinquant'anni dopo, il maestro cristiano Clemente Alessandrino definisce il cosiddetto decreto degli apostoli degli Atti degli apostoli (15, 22-29) una “lettera cattolica” di tutti gli apostoli, una “lettera comune di tutti gli Apostoli” (cfr. Stromateis, iv, 97, 3).
Questo utilizzo poco specifico del campo semantico katholikòs/catholicus nella letteratura cristiana termina solo nella tarda antichità, quando la Chiesa diventa un'istituzione potente e importante nella compagine di un impero romano in declino, dopo le riforme degli imperatori Costantino e Teodosio nel quarto secolo. Da allora, i termini katholikòs/catholicus vengono collegati quasi automaticamente alla parola “Chiesa”.
La definizione di catholicus del periodo post-costantiniano più nota e più citata in epoca moderna è quella molto pertinente data da un monaco gallico di nome Vincenzo, del monastero di rifugiati di Lérins, alle porte di Cannes; l'opuscolo in cui compare si chiama Commonitorium ed è stato scritto intorno alla metà del quinto secolo: «Proprio in quella stessa Chiesa cattolica occorre fare con grande attenzione in modo che osserviamo ciò che ovunque, che sempre, è stato creduto da tutti. Infatti è veramente e realmente cattolico ciò che, come indicano il nome e il motivo della cosa, comprende tutti insieme. Ma questa regola la seguiremo se seguiremo l'universalità, l'antichità, la conformità. Pertanto, seguiamo l'universalità quando professiamo che è vera quell'unica fede che la Chiesa in tutto il mondo professa; seguiamo l'antichità quando in nessun modo deviamo dalle opinioni, delle quali è stabilito che sono state sostenute dai nostri santi predecessori e padri; allo stesso modo seguiremo la conformità quando in quella antichità [s'intende il tempo dei predecessori e dei padri] manteniamo le definizioni e le opinioni di tutti, o perlomeno di quasi tutti i sacerdoti e i maestri» (Commonitorium, 2, 5).
“Cattolico” non implica quindi solo un'universalità non specificata, bensì una continuità nel tempo in vista di una fede unica, universale e sempre uguale. “Cattolico” si concretizza quindi nell'identità della dottrina della fede.
Già cinquant'anni prima, quindi verso la fine del quarto secolo, l'attributo “cattolico” (o appunto universale, catholicus) era stato introdotto nei testi che hanno preceduto il nostro piccolo Credo, l'Apostolicum, dove lo troviamo ancora oggi.
Con tale termine veniva indicata non tanto la Chiesa cristiana diffusa in tutto l'impero romano globalizzato, quanto la Chiesa una, per distinguerla dalle Chiese separate, piuttosto numerose nel quarto secolo, che erano in contrasto con la Chiesa maggioritaria: la Chiesa dei donatisti in Nord Africa, la Chiesa dei cosiddetti omeisti, chiamati volentieri anche ariani, in tutto l'impero, ma soprattutto presso i popoli germanici, e così via.
Come si è giunti a questa accezione -- per così dire dottrinale, riferita all'insegnamento -- del termine “cattolico”? Il Nuovo Testamento, come è già indirettamente emerso, non conosceva questo campo semantico.
Mai questa parola viene riferita alla Chiesa come attributo. E tuttavia, il suo contenuto, l'universalità della salvezza per antonomasia nella comunità riunita intorno a Gesù, il Cristo, può essere riscontrato praticamente in tutti gli scritti del Nuovo Testamento diventato canonico.
Dopo i contrasti iniziali, talvolta gravi, si è imposta sin dai primordi del cristianesimo l'intuizione che non possono esistere barriere nazionali, razziali, geografiche, sociologiche o biologiche all'essere accolti nella comunità cristiana, poiché la volontà di riconciliazione di Dio, che si manifesta in Cristo, è universale. Già per le prime generazioni è evidente che della Chiesa fanno parte tanto gli ebrei quanto i pagani, tanto i ricchi quanto i poveri, tanto gli uomini quanto le donne, e naturalmente tutti i popoli elencati nel meraviglioso racconto della Pentecoste.
Nella tarda antichità l'idea che il concetto di Chiesa racchiuda l'universalità per antonomasia si ricollega da un lato all'idea di una continuità della fede e della dottrina nel tempo e dall'altro a quella che le istituzioni della Chiesa universale in qualche modo garantiscono la continuità dottrinale, in modo sempre maggiore lo fanno il ministero episcopale, ma naturalmente anche i sinodi e i concili.
È del padre della Chiesa nordafricano Agostino, a cavallo tra il quarto e il quinto secolo, la celebre frase: ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas, cioè «io stesso non crederei al Vangelo se non fossi mosso dall'autorità della Chiesa cattolica» (Contra epistolam manichaei, 5, 6). Per non fraintendere completamente la frase, è importante capire che a Roma per autorità s'intendeva una forza personale dominante basata sulle qualità e non un semplice esercizio del potere gerarchico: la Chiesa partecipa all'autorità personale dominante di Cristo. La tendenza a legare la cattolicità della Chiesa all'istituzione quale suo garante, che poggia su Agostino, nel medioevo si rafforza notevolmente: in particolare il Papa viene percepito sempre più come garante dell'universalità della Chiesa, e di fatto si presenta come tale.
La Riforma ha messo molto presto in discussione questo nesso, approfondito (e quindi anche acuito) nel medioevo, tra istituzione e cattolicità della Chiesa; già nel 1519, nella disputa di Lipsia, Martin Lutero spiega che la Chiesa, quando parla qua istituzione come Chiesa (in un concilio) potrebbe essere fallibile e che nel caso della condanna del riformatore boemo Giovanni Huss durante il concilio di Costanza del 1415 di fatto ha sbagliato.
In tal modo Lutero contesta che la correttezza istituzionale di un'affermazione dottrinale della Chiesa sia sempre e in ogni tempo garanzia della sua cattolicità nel senso di conformità alla dottrina della Chiesa di ogni tempo e luogo.
Va anche oltre quando, a partire dalla metà del 1520 -- quindi dopo la bolla di scomunica papale -- definisce il Papa anticristo e quindi nemico incarnato dell'universalità e della cattolicità salvifiche della Chiesa.
Nel 2011 monsignor Gerhard Ludwig Müller, vescovo di Ratisbona, in vista delle celebrazioni della Riforma del 2017, ha chiesto -- come è noto -- una presa di distanza ufficiale da parte delle Chiese evangeliche da questo linguaggio dei riformatori. Lutero, ma anche Melantone, Zwingli, Calvino o Bucero spiegavano questa interpretazione del Papa romano come l'anticristo della fine dei tempi, per noi oggi tanto lontana, con la sua pretesa di primato nelle questioni dottrinali e giuridiche e con la comprensione della messa come ripetizione costante dell'unico sacrificio della croce.
Lutero e gli altri riformatori sopracitati consideravano questi elementi caratteristici della teologia del ministero papale e della teologia sacramentale altomedievale un oscuramento dell'universalità di Gesù, ovvero dell'unicità del suo sacrificio sulla croce. I teologi riformisti si esprimevano in modo tanto aspro perché attribuivano grande importanza all'università e alla cattolicità della Chiesa e l'enfasi posta su questi due aspetti non era dovuta solo a ragioni di polemica contro Roma.
Per Martin Lutero la Chiesa come comunità dei santi è naturalmente sancta Catholica Christiana. Il riformatore sottolinea, in perfetto accordo con le grandi confessioni e con il santo del suo ordine, Agostino, che era anche patrono della facoltà di teologia dell'università di Wittenberg, la Leucorea, le diverse dimensioni dell'universalità della Chiesa, la sua diffusione locale in tutto il mondo, la sua continuità nel tempo. Ogni tanto ci si pone la domanda se Lutero considerasse ancora la cattolicità della Chiesa oscurata dal papato attraverso la sua pretesa di primato e dalla prigionia babilonese dei sacramenti nella teologia sacramentale dell'alto e del basso medioevo, una “caratteristica della Chiesa” nel senso della concezione classica di nota ecclesiae.
Nel linguaggio tecnico dei teologi sistematici si definiscono notae ecclesiae le caratteristiche essenziali della Chiesa, costitutive di ogni essere Chiesa, tipicamente espresse dagli attributi della Chiesa nel grande Credo («crediamo nella Chiesa una, santa, universale e apostolica»): unità, santità, cattolicità e apostolicità.
La domanda se Lutero stesso considerasse ancora la “cattolicità” una caratteristica determinante della natura della Chiesa o piuttosto una “ovvietà ecclesiologica” qui non ci deve interessare.
Di certo sappiamo che era fermamente convinto che l'attributo “romana”, nel senso di una definizione della Chiesa costituita sotto il Papa, governata dall'anticristo (così pensava lui), e l'attributo “universale” si escludessero a vicenda: “cattolico romano” sarebbe stato per Lutero un accostamento impossibile di termini, nel vero senso della parola.
Fa parte dell'onestà ecumenica affrontare, in vista del giubileo della Riforma del 2017, anche queste caratteristiche del passato che gravano sulla relazione tra le confessioni.
In tal senso, tra l'altro, ritengo ragionevole anche la proposta di approfondire insieme alla Chiesa cattolica romana i lati più complicati della storia comune e di riconoscere insieme le colpe; o almeno lo è se la memoria della Riforma di quell'anno non diventa un unico grande atto penitenziale. Perché naturalmente c'è anche qualcosa da festeggiare. Ritorniamo però sul tema della cattolicità della Chiesa evangelica presso i riformatori.
Quando ci s'interroga se nelle Chiese della Riforma la cattolicità della Chiesa in senso classico costituisce una “caratteristica della Chiesa”, non ci si può soffermare a discutere i singoli riformatori e le loro esternazioni talvolta polemiche o dettate dalla circostanza del momento. Piuttosto, è importante esaminare le basi dottrinali vincolanti delle Chiese riformiste, e quindi i loro scritti confessionali. Così facendo, appare evidente che negli scritti confessionali dei riformisti del sedicesimo secolo le quattro “caratteristiche della Chiesa” classiche sopracitate (notae ecclesiae) non devono essere contrapposte alle antiche “caratteristiche” classiche, citate nella professione di fede dei sinodi imperiali di Nicea e di Costantinopoli, ossia l'unità, la santità, la cattolicità e l'apostolicità.
Queste quattro caratteristiche, di fatto, fanno parte della nostra professione evangelica per il fatto stesso che il testo del Nicaeno-Constantinopolitanum apre, insieme all'Apostolicum, la raccolta degli scritti confessionali luterani.
Per i riformisti era importante collocarsi in questo punto prominente nella continuità della Chiesa di Gesù Cristo di ogni tempo e dei suoi testi confessionali fondamentali. Questo riferimento caratterizza anche gli scritti confessionali prodotti nel sedicesimo secolo, dei quali basta citare un esempio: la confessione evangelica più diffusa, ovvero la confessione dei principi evangelici dinanzi alla Dieta di Augusta del 1530, la Confessio Augustana, che nel settimo articolo indica due “caratteristiche” aggiuntive, la predicazione pura del Vangelo e l'amministrazione dei sacramenti conformemente al Vangelo.
Tuttavia collega subito queste due nuove notae ecclesiae con una delle quattro “note” classiche: le due “caratteristiche” -- per così dire “nuove”, o, più precisamente, formulate in modo nuovo -- della Chiesa, la predicazione del Vangelo nella sua purezza e l'amministrazione corretta dei sacramenti, dice la Confessione augustana, sono necessarie per la vera unità della Chiesa.
In altre parole: per ragioni attuali la Confessione evangelica precisa una delle quattro caratteristiche classiche. La caratteristica della “cattolicità” non viene appositamente spiegata nella confessione augustana; tutt'al più dalle primissime parole del documento («Le chiese presso di noi insegnano, in completo accordo, che il decreto del concilio di Nicea») si può riconoscere che fin dall'inizio viene confessata la fede della Chiesa in Gesù Cristo in ogni tempo.
Comunque l'autore della confessione di Augusta, il professore amico e collega di Lutero, Filippo Melantone, si è sempre sforzato d'illustrare la continuità delle Chiese della Riforma e della loro dottrina con la Chiesa cristiana antica. La cattolicità e l'universalità della Chiesa sono ancora più chiaramente al centro del suo impegno teologico di quanto lo siano per Lutero, forse anche perché Melantone scorgeva nella sottolineatura di questa dimensione della Chiesa una via per la comprensione tra le confessioni.
Per queste ragioni la sua confessione recepisce le due professioni di fede della Chiesa e condanna le eresie che nella storia della Chiesa si erano distaccate dalla Catholica. In un altro punto Filippo Melantone afferma con grande enfasi: «Le Chiese che hanno accettato la nostra Confessione sono di fatto membri della Chiesa cattolica, poiché l'insegnamento della nostra Chiesa corrisponde a quello della Chiesa Antica». Questa ricezione della dimensione della cattolicità nelle Chiese della Riforma, motivata da Melantone, è stata seguita dalla maggior parte dei teologi fino a buona parte del diciannovesimo secolo. Proprio i cosiddetti Kirchentümer (feudi della Chiesa) della Riforma, profondamente condizionati dai numerosi piccoli territori del Sacro romano impero, consolidati come confessioni proprio a partire dal tardo sedicesimo secolo, si sono senza alcun dubbio definiti “cattolici”.
Le dogmatiche scolastiche protestanti barocche, come già la somma dogmatica prebarocca del teologo di Braunschweig Martin Chemnitz (1522-1586), adottavano volentieri le formule coniate dal monaco gallico Vincenzo di Lerino, ma spesso le presentavano in un contesto aspramente polemico nei confronti di Roma, critico delle istituzioni e inasprito sull'individuo credente.
Chemnitz afferma: cattolico è quod semper, quod ubique, quod ab omnibus fidelibus ex scriptura receptum fuit, ovvero «ciò che sempre, ovunque e dinanzi a tutti i credenti è stato tratto dalla Scrittura».
Ancora nel diciassettesimo secolo nelle chiese della Riforma ci si definisce volentieri “cattolici-evangelici”. Ma poi anche nelle Chiese evangeliche ha inizio un'evoluzione, già avvenuta in ambito cattolico, che rende la cattolicità e l'attributo “cattolico” definizioni confessionali della Chiesa cattolica romana, e così l'espressione giunge fino al ventesimo secolo. Solo alcuni pensatori ecumenici, come per esempio Nathan Söderblom (1866-1931), svedese studioso delle religioni a Lipsia, poi diventato arcivescovo, hanno reintrodotto nel dibattito concetti quali “cattolicità evangelica”.

(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2012)

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